La maschera: misteriosa controversa ma innegabilmente affascinante
Segui Email “La maschera è il volto turbato e conturbante dell’ignoto, è il sorriso della menzogna, è l’anima della
“La maschera è il volto turbato e
conturbante dell’ignoto, è il sorriso della
menzogna, è l’anima della perversità che
sa corrompere terrificando; è la lussuria
condita dalla paura, l’angosciante e
deliziosa alea della sfida lanciata alla
curiosità dei sensi.”
(Jean Lorrain)
La maschera è un oggetto, o forse dovrei chiamarla strumento, estremamente misterioso e controverso, ma innegabilmente affascinante, a partire dalla sua etimologia.
L’etimologia della maschera
Si pensa che la parola maschera possa derivare dal termine di origine indoeuropea masca – fuliggine, fantasma nero – che, durante il medioevo, ha assunto il significato traslato di strega. Abbiamo una testimonianza dell’utilizzo di questo termine con questa precisa accezione nell’Editto di Rotari (la raccolta di leggi longobarde che prende il nome dal re) promulgato nel 643 d.C.: “strigam, quod est masca”. L’editto cita l’espressione per stabilire che appellare una donna con tale epiteto è un’ingiuria punibile dalla legge.
Ma come mai un termine che inizialmente indica fantasmi e streghe passa a designare un oggetto che cela il volto o l’intera persona?
Non temete, questo mistero lo scopriremo molto presto, tra qualche paragrafo.
Nel mentre voglio rivelarvi un’altra curiosità molto interessante.
Il termine persona proviene dal latino persōna, con il significato di “maschera dell’attore”, “personaggio”, derivato dall’etrusco phersu; questa parola proverrebbe a sua volta dal greco πρóσωπον – prósôpon – che letteralmente significa “davanti agli occhi altrui” e che, per questo, sta ad indicare tanto il volto dell’individuo, quanto la maschera dell’attore o il personaggio da esso rappresentato.
Le origini della maschera
Le prime maschere avevano fattezze zoomorfe – ossia animali – e si fanno risalire alla preistoria. Se ne trovano tracce nelle pitture rupestri e in statuette rinvenute in diversi siti: nelle grotte di Les Trois Frères, Chauvet e Gabillou – in Francia – nella grotta di Stratzing in Austria, nella grotta di Fumane in Italia e in molti altri siti. Più precisamente queste raffigurazioni rappresentano esseri zoomorfi o ibridi che, con ogni probabilità, si identificherebbero con la figura dello sciamano: una creatura trascendente con il compito di mettere in contatto l’umano con il divino, identificato con le forze della natura, che si serviva appunto di travestimenti che coprivano più o meno interamente il corpo, facendogli assumere sembianze ferine, poiché si riteneva – e in alcune popolazioni primitive si ritiene tuttora – che gli animali fossero in diretto contatto con la natura. Solitamente con l’assunzione di droghe naturali ricavate da piante o funghi, lo sciamano cadeva in trance ed era così in grado di accedere ad altre dimensioni e livelli di conoscenza. Pare che in una delle fasi finali degli effetti di queste allucinazioni, l’individuo avesse la sensazione di volare o entrasse nel ruolo di alcuni animali. Dunque indossando questi travestimenti zoomorfi, lo sciamano come anche il suo clan non aveva la percezione di imitare un animale, ma diventava a tutti gli effetti l’animale stesso. Quindi non si trattava di una questione di apparire ma di essere.
Ma la maschera, in quanto strumento di accesso a un’altra realtà, di transizione, venne, ed e tuttora utilizzata in alcune tribù, durante i riti di passaggio o di iniziazione.
Desidero inoltre sottolineare il fatto che la maschera tanto in epoca preistorica, quanto nelle tribù primitive contemporanee, è considerata pregna di un potere intrinseco, a prescindere che venga indossata oppure no. Infatti, in molte popolazioni le maschere hanno scopo apotropaico – ossia sono considerate in grado allontanare o annullare un influsso magico maligno – e vengono semplicemente appese sulle soglie, nelle abitazioni o in luoghi sacri.
Ma prima ancora della realizzazione delle prime maschere l’uomo celava il proprio volto o parti più estese del corpo con della semplice pittura o abiti particolari che fungevano da travestimento; poiché con il termine maschera si può intendere tanto il solo manufatto che copre il volto quanto un intero travestimento, ma persino un nome diverso dal nostro o anche un solo atteggiamento che si discosta dal nostro.
La maschera e il teatro
È giunto il momento di parlare della maschera nel suo contesto per eccellenza: il teatro.
La maschera si lega indissolubilmente al teatro nell’antica Grecia.
Vi state chiedendo come?
Naturalmente grazie a Dioniso, dio dell’ebrezza, del vino e del teatro. Sebbene questi aspetti possano inizialmente sembrarvi poco attinenti gli uni con gli altri, in realtà sono molto più connessi di quanto immaginiate…
Avete mai visto la kylix a occhioni di Exekias?
Questo manufatto e un’elegante coppa da vino realizzata da Exekias – un celebre ceramista e ceramografo ateniese, attivo ad Atene tra il 550 e il 530 a.C. – che dipinse su una delle due pareti esterne un paio di grandi occhi; cosicché a colui che beveva dal calice la parte del volto celata dalla ceramica veniva restituita da quest’ultima grazie a questa particolare pittura. Ma lo scopo non era solo questo; infatti questa coppa, realizzata esclusivamente per ospitare vino al suo interno, aveva la valenza simbolica di mostrare come questo liquido, alla stregua di una maschera, donando l’ebrezza, avesse la capacità di trasformare l’individuo, facendolo trascendere e, assopendo i freni inibitori, lo rendesse più libero di esprimere se stesso.
Dunque, la divinità che era in grado di trasformarti con l’estasi dell’ebrezza non era poi così incoerente che fosse anche patrona delle arti teatrali, soprattutto considerando, alla luce di quanto appena detto sulle capacità di Dioniso, che le sue prime rappresentazioni iconiche erano costituite da una maschera barbuta appesa a un palo o a un albero. Inoltre, sempre connesso con il culto di questa divinità, era l’impiego della maschera, indossata in suo onore, durante feste e cerimonie sacre a lui dedicate e nelle quali si possono riconoscere i diretti precedenti delle rappresentazioni sceniche.
Ma senza altro indugio parliamo dell’utilizzo della maschera nel teatro nel corso della storia.
Naturalmente la nostra piccola gita millenaria avrà inizio da quella che può essere considerata la culla del teatro e delle maschere teatrali: l’antica Grecia.
Nel teatro greco l’utilizzo delle maschere è attestato almeno dal IV-V secolo a.C.. Queste ultime avevano la doppia funzione di caratterizzare il personaggio e di fungere da cassa di risonanza per amplificare la voce e rendere più udibili i dialoghi. Infatti, erano molto grandi e l’apertura della bocca aveva la forma di un imbuto per svolgere la funzione di megafono. Dopo essere state ricoperte di stucco esse venivano dipinte in base ai personaggi: incarnato chiaro per i ruoli femminili e scuro per quelli maschili.
Con il trascorrere del tempo vennero introdotti nuovi colori ed espressioni, che andarono a rappresentare sempre più personaggi, maggiormente caratterizzati e definiti.
Ma se la serietà della maschera tragica mantiene il registro psicologico del personaggio nell’uniformità estetica del genere elevato e solenne, con l’avvento della Commedia Nuova, introdotta dal commediografo Menandro (342-291 a.C.), avviene la tipizzazione ironica dei caratteri, con la canonizzazione dei ruoli sociali e morali della Ragazza, del Ruffiano, del Giovane ingenuo, del Servo, della Mezzana, del Soldato fanfarone, dell’Adulatore, dell’Avaro, del Calunniatore, e così via. Passando per il teatro romano di Plauto e di Terenzio questi “tipi” inizieranno il loro cammino verso le maschere a noi più note: quelle della Commedia dell’Arte nella seconda metà del Cinquecento, con i vari Arlecchino, Brighella, Pantalone, Colombina ecc..
L’uso della maschera nella Commedia dell’Arte proseguì fino all’incirca al XVIII secolo, quando Carlo Goldoni, allo scopo di riformare il teatro, obbligò gradualmente gli attori a riferirsi a un testo scritto, invece che a un canovaccio improvvisato, eliminando parallelamente le maschere e conferendo ai personaggi un’individualità sempre più marcata, che portò alla trasformazione della commedia dell’arte in commedia scritta.
L’uso della maschera non si ripresenterà nel teatro fino al XX secolo.
L’attore teatrale Jacques Lecoq giunse in Italia nel 1948 per studiare i caratteri delle maschere del teatro classico e della commedia dell’arte. Fu proprio a contatto col patrimonio artistico del nostro Paese che sviluppò le basi della sua futura pedagogia teatrale e decise di creare la maschera neutra – l’inquietantissima maschera, solitamente bianca, che copre completamente il volto con solo i fori per vedere e respirare – uno strumento che permette a chi la indossa di potenziare la propria gestualità grazie a un annullamento dei tratti distintivi del viso dell’attore e consente di neutralizzare i caratteri singolari degli attori agevolandoli nel calarsi senza conflitti in un personaggio.
Infine, rivolgendo lo sguardo al Giappone, desidero citarvi la maschera del Teatro Nō, un elemento fondamentale di questo teatro, anche se ad indossarla è solo il personaggio principale e pochi altri. La particolarità di questo tipo di maschera sta nel fatto che è scolpita in modo tale che a seconda della posizione della testa dell’attore e dell’illuminazione si producano mutamenti espressivi. Inoltre è molto interessante il fatto che ogni spettacolo Nō sia preceduto da una specie di venerazione nei confronti della maschera, in modo che l’attore possa incarnare al meglio il suo personaggio.
La Maschera nel carnevale
E ora parliamo di una festa legata a doppio filo alla maschera: il carnevale.
Il carnevale come quasi tutte le feste cristiane, affonda le sue origini in feste ben più antiche e pagane. Il più antico antecedente del carnevale risale addirittura agli antichi egizi: Il Navigium Isidis – la nave di Iside – era una festa dedicata alla dea Iside che si svolgeva nel primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera. Essa vedeva sfilare su un “carro navale” la dea Iside, per festeggiare la resurrezione del suo sposo Osiride, dopo aver ritrovato, viaggiando per mari, e ricomposto tutte le parti del suo corpo smembrato.
P.s. Se volete saperne di più su quest’affascinante leggenda dai risvolti hot, vi consiglio di leggere il mio articolo sulla bacchetta magica…
Ma torniamo a noi e alle origini del carnevale.
Anche nell’antica Grecia troviamo un altro valido antecedente di questa festa: le Antesterie.
Le Antesterie erano delle feste celebrate in onore di Dioniso, e cadevano, per l’appunto nel mese di Antesterione – a cavallo fra febbraio e marzo – con il gaudio e l’ebrezza donate dal vino, si celebrava la rinascita della natura. Ma queste celebrazioni racchiudevano in sé anche un aspetto più oscuro, poiché durante questa festa, il dodicesimo giorno di Antisterione, si riteneva che gli spiriti dei morti tornassero ad aggirarsi sulla terra e, proprio per difendersene e scacciarli, le persone ricoprivano le porte di pece, si chiudevano i templi cingendoli con una fune, si indossavano maschere – ricordiamoci che la festa era dedicata a Dioniso, la divinità legata alla maschera – e si parla persino di cortei con dei carri.
Uno grande similitudine con le Antesterie greche, lo avevano i Saturnali romani, probabilmente influenzati dalle prime.
Solenne festa religiosa dell’antica Roma, di carattere popolare, che si celebrava in onore del dio Saturno, in un periodo compreso tra il 17 e il 23 dicembre, coincidente con il solstizio d’inverno e pertanto connesso con la fine del ciclo dell’anno solare.
Durante i Saturnali gli schiavi diventavano uomini liberi, non dovevano servire i padroni ma a volte erano gli stessi padroni a servirli, o almeno organizzavano un banchetto per loro. Inoltre veniva eletto, tramite estrazione a sorte, un “princeps” – una caricatura della classe nobile – a cui veniva assegnato ogni potere sulla festa stessa, vestito con una buffa maschera e colori sgargianti tra cui predominava il rosso, colore degli dei e degli imperatori. Il princeps, che seguiva e organizzava la festa, assicurandone il buon andamento, rappresentava una divinità infera, Saturno o Plutone, protettore delle campagne e dei raccolti ma, soprattutto, guardiano dei defunti. E si credeva che le divinità infere Saturno, Plutone, Proserpina, uscite dal sottosuolo, vagassero in corteo per tutto il periodo invernale, quando la terra riposava incolta a causa del gelo invernale. Dovevano quindi essere placate con l’offerta di doni e di feste in loro onore per renderli benevoli e farli poi tornare nell’aldilà, dove, come divinità del sottosuolo, avrebbero protetto i semi, li avrebbe fatti germogliare in primavera e avrebbero favorito i raccolti della stagione estiva.
Inscrivendosi, idealmente come limbo senza tempo, al confine tra la morte della natura invernale e la rinascita della primavera, il rito ancestrale del carnevale rappresenterebbe uno spazio propiziatorio che scardina l’ordine costituito. È nel “caos” che precede la rinascita che avverrebbe la purificazione, condizione necessaria all’instaurarsi d’un nuovo ordine. La rottura, seppur temporanea – e concessa – degli assetti sociali che fa da filo conduttore ai festeggiamenti carnevaleschi originari, passa attraverso l’uso del mascheramento, che come già abbiamo detto, spesso connota un rito di passaggio.
Dunque le motivazioni che spingevano gli uomini a mascherarsi erano varie: schermarsi e allontanare spiriti potenzialmente nefasti, per assumere un’identità diversa o semplicemente divertirsi. In alcuni casi le maschere consentono di manifestare un lato di sé altrimenti nascosto, liberandosi dai ruoli e dagli atteggiamenti che vengono costantemente attribuiti alla persona dalla società.
A quest’immenso patrimonio culturale che ci è stato tramandato dal passato – e che presenta innegabili tangenze con il Dia de los Muertos e Halloween – si devono le origini del Carnevale cristiano, in cui la maschera (spesso orripilante), indossata come difesa contro spiriti maligni è passata a essere identificata con essi stessi e le forze del male.
Eroi, supereroi e super cattivi mascherati
Avete notato che la maggior parte dei supereroi e dei super cattivi, se non la totalità di loro, cela la propria identità con una maschera o un travestimento completo?
– Grazie Sailor Moon per averci mostrato come un semplice diadema sulla fronte può nascondere l’identità di qualcuno –
Ma il leit motiv del mascheramento dell’eroe affonda le sue radici in scritti molto antichi: i poemi omerici.
Il primo eroe di cui abbiamo notizia che se ne sia avvalso è Patroclo. Questi è l’“intimo” amico di Achille, quello di cui, appunto, nell’“Iliade” si narra l’ira funesta. E perché Achille era irato? Perché Agamennone – capo supremo degli Achei durante la guerra di Troia – avendo dovuto restituire la sua schiava Criseide al padre Crise, sacerdote di Apollo, poiché quest’ultimo per convincere gentilmente Agamennone a restituire al suo sacerdote la figlia aveva fatto scoppiare una pestilenza, come “indennizzo” aveva sequestrato ad Achille la sua schiava, Briseide. Quest’ultimo non l’aveva presa molto bene e, da quel momento in poi si era rifiutato di fare ciò che gli riusciva meglio: combattere. Ma il suo Patroclo non riusciva a guardare senza far nulla tanti guerrieri Achei che, senza Achille tra le fila dei guerrieri, morivano per mano dei troiani. Così chiese al suo amante che almeno gli concedesse di scendere in battaglia indossando la sua armatura, che ormai era divenuta leggenda e sinonimo di invincibilità: tutti avrebbero pensato che fosse Achille in persona e gli Achei avrebbero avuto un po’ di sollievo. Ed effettivamente il piano di Patroclo funzionò, almeno all’inizio…
Ma l’eroe che più è famoso per i suoi travestimenti e la sua arte di ingannare, è quello che dà il nome al secondo poema omerico: Odisseo, per gli amici Ulisse.
Celebre è il suo “travestimento” da mendicante a opera della dea Atena, per infiltrarsi nel suo palazzo occupato dai proci, altro che Cenerentola e la fata Smemorina:
“Con una verga lo toccò Atena;
e gli avvizzì la bella pelle sulle agili membra,
i biondi capelli fece sparire dal capo, una pelle
da vecchio antico gli fece attorno alle membra,
rese cisposi gli occhi prima bellissimi;
e un lucido cencio gli buttò addosso e una tunica
stracciati, sporchi, neri d’orrido fumo;
sopra gli vestì una gran pelle di rapida cerva,
spelata.”
(Omero, “Odissea” libro XIII, vv. 429-437)
E dopo questi eroi mitici, tutti i supereroi e i super cattivi indosseranno una maschera –nel senso più ampio del termine – per celare la propria identità e a volte, la maschera stessa diverrà simbolo e portavoce dei valori o della “filosofia” di chi la indossa. Si pensi alla maschera di Guy Fawkes, indossata da V per vendetta, o quella di Salvador Dalì – così simile alla precedente nell’aspetto e nel messaggio – che nasconde il volto dei componenti della banda della serie tv “La casa di carta”.
La maschera mortuaria
Le maschere funebri sono state da sempre realizzate con materiali facili da modellare e plasmare, primo tra tutti il metallo (tra cui argento e oro) ma anche materiali più economici come la tela stuccata, il cartonnage – una tecnica che realizzava la maschera funeraria sovrapponendo strati di lino o di papiro, stuccati e dipinti con intonaco – la terracotta, il gesso, la creta o la cera.
L’usanza di coprire il volto di un defunto con una maschera che ne riproduca le sue fattezze, o creare una maschera con le fattezze del defunto è molto antica, e può avere varie funzioni: preservare quella che forse è considerata la parte più importante fisicamente e simbolicamente di una persona, preservare il ricordo dei tratti del suo volto oppure impedire che spiriti maligni entrino nel corpo appropriandosene.
Tra le maschere funebri più famose dell’antichità c’è, senza dubbio quella di Agamennone, scoperta nel 1876 da Heinrich Schliemann a Micene, in Grecia, databile tra il 1550 e il 1500 a.C. e, naturalmente quelle egizie rinvenute all’interno dei sarcofagi.
La maschera funebre era fondamentale presso gli antichi Egizi – d’altra parte erano quasi ossessionati dalla preservazione del corpo dei defunti – tanto da venir citata persino nel “Libro dei morti” – un antico testo funerario egizio – nella formula 151b. A tal proposito, menzionerò una sola maschera funebre egizia, il cui proprietario è divenuto leggenda: la maschera funebre di Tutankhamon (1332–1323 a.C.), o forse dovrei dire di Ankheperura Meri-Neferkheperura…
E sì, alcuni indizi come i fori sulle orecchie – particolare insolito per un faraone, visto che erano riservati ai principi e alle donne – e l’individuazione della parola Ankhtkheperura – nome di una sposa regale – in un cartiglio parzialmente cancellato sul retro della maschera, fecero comprendere che quest’ultima fu riassemblata e adattata per Tutankhamon, in quanto era stata originariamente creata per questa misteriosa regina che, con ogni probabilità, altri non dovrebbe essere che la bellissima Nefertiti, oppure la sua altrettanto incantevole figlia Merytaton.
Comunque, tornando a parlare di quanto scritto sul retro della maschera, vi si possono leggere – se siete degli egittologi – 10 colonne verticali e 2 orizzontali di geroglifici, derivanti da una personalizzazione proprio della suddetta formula 151b del “Libro dei Morti”, di cui si hanno esempi sulle maschere funerarie fin dal Medio Regno, 500 anni prima di Tutankhamon. Il testo, che richiama la protezione degli dei Ptah-Sokar – una divinità egizia nata dalla fusione di tre dei – Thot, Anubi, Horus – nonché dell’intera Enneade – un gruppo di nove divinità della mitologia egizia – è adattato specificamente al benessere di Tutankhamon nell’aldilà:
“Salute a te. Bello è il tuo viso che irradia luce completato da Ptah-Sokar, esaltato da Anubi. Fa’ in modo che siano innalzate lodi a Thot. Bello è il volto che è presso gli dei. Il tuo occhio destro è nella barca della sera [la barca solare di Ra], il tuo occhio sinistro è nella barca del giorno, le tue sopracciglia nell’Enneade. La tua fronte è [quella di] Anubi, la tua nuca è [quella di] Horus, i ciuffi dei tuoi capelli [sono quelli di] Ptah-Sokar. Sei dinanzi ad Osiride [qui identificato con Tutankhamon stesso], egli ti rende grazie, egli ti conduce lungo le buone strade, tu abbatti per lui i cospiratori di Seth, cosicché egli possa sconfiggere i tuoi nemici dinnanzi alla Enneade degli dei, nel grande Palazzo del Principe che è in Eliopoli […] che è Osiride, il re dell’Alto e del Basso Egitto, Nebkheperura [Tutankhamon], defunto, dia vita come Ra.”
Nell’antica Roma l’uso delle maschere era strettamente connesso con il culto degli avi. Alla morte di un patrizio veniva plasmata una maschera di cera sul suo volto e, con questa, il cadavere veniva esposto per alcuni giorni. Dopo le esequie la maschera si conservava in un’apposita custodia nell’atrio di casa.
Nel Medioevo, e da lì nei secoli seguenti, si diffuse sempre più l’usanza di realizzare maschere mortuarie realizzate dal calco del volto del defunto a scopo di preservarne la memoria dell’aspetto. Queste creazioni, non venivano sepolte con il defunto, ma erano utilizzate nelle cerimonie funebri e successivamente venivano conservate nelle biblioteche, nei musei e nelle Università. Inoltre, le maschere mortuarie non venivano più fatte solo ai reali e alla nobiltà – Enrico VIII, Pietro il Grande, Napoleone ecc. – ma anche a persone eminenti: poeti, filosofi, artisti, studiosi, e drammaturghi, come Dante Alighieri, Filippo Brunelleschi, Torquato Tasso, Blaise Pascal e Voltaire. E spesso le maschere mortuarie venivano in seguito usate per ritratti, sculture, busti o incisioni raffiguranti il defunto.
Infine, prima della diffusione della fotografia, le caratteristiche del viso di cadaveri non identificati erano preservate dalle maschere mortuarie in modo che i parenti potessero riconoscere il corpo se fossero stati in cerca di una persona scomparsa. Una di queste maschere, conosciuta come “La sconosciuta della Senna”, registra il viso di una giovane donna sconosciuta, la quale fu trovata annegata lungo la Senna a Parigi alla fine degli anni 1880. Un impiegato dell’obitorio fu impressionato dalla sua bellezza e volle immortalarla in un calco. Fu considerata così bella, che negli anni seguenti furono fatte delle copie della sua maschera mortuaria. E il viso del primo manichino al mondo per il training sulla rianimazione, chiamato Resusci Anne, prodotto nel 1960, fu romanticamente modellato sul viso de La sconosciuta della Senna; come se si fosse voluta mantenere viva la speranza di poter salvare questa splendida e sfortunata giovane.
Maschera come costrizione
Avete mai riflettuto sul fatto che anche una museruola o una benda per gli occhi sono un tipo di maschera? Di certo con una funzione ben specifica, ma sempre di maschere si tratta, in quanto cela una parte del volto; si pensi a quella contenitiva indossata da Hannibal Lecter nei romanzi di Thomas Harris e nei film che ne sono stati tratti. E se quest’ultima e solo frutto della fantasia, purtroppo ne esisto altre terribilmente vere…
Avete mai sentito parlare della mordacchia?
La mordacchia era uno strumento di tortura rinascimentale che si applicava alla bocca del condannato. Interamente realizzato di metallo, solitamente ferro, era concettualmente poco dissimile dal morso dei cavalli, ma lo scopo per cui veniva fatta indossare era quello di non fare emettere alcuna parola o suono al torturato (o molto più frequentemente, alla torturata, visto che spesso venivano così punite le donne considerate chiacchierone, pettegole, ribelli all’autorità dei mariti e naturalmente quelle accusate di stregoneria). Come funzionava la mordacchia? La mordacchia veniva chiusa dietro alla testa e bloccata, possedeva una piastra, munita o di un uncino o di una punta di ferro, che veniva inserita all’interno della bocca. Questa premeva a fondo sulla lingua provocando gravissime ferite e impedendone qualsiasi movimento. Atterrisce il fatto che questo strumento di tortura continuò a essere utilizzato fino al 1856.
Meno cruenta ma forse più subdola era la “Moretta”: una maschera veneziana molto particolare: era ovale, di velluto nero e veniva indossata dalle donne. La sua invenzione ebbe origine in Francia, ma si diffuse rapidamente nella Serenissima. La peculiarità che rendeva questa maschera particolarmente gradita agli uomini consisteva nel fatto che si sorreggeva sul viso tenendo in bocca un piccolo perno, impedendo a chi la indossava di parlare.
Naturalmente una maschera diviene una costrizione nel momento in cui ci viene imposta, come accade ne “Il visconte di Bragelonne”, romanzo finale del “Ciclo dei moschettieri” di Alexandre Dumas padre (1802-1870); ispirato a un fatto realmente accaduto riportato dal filosofo Voltaire che, imprigionato nel 1717 per breve tempo alla Bastiglia, venne a sapere da alcune guardie che alcuni anni prima vi era detenuto uno strano personaggio, detto “La Maschera di Ferro” poiché portava sempre sul volto una maschera di velluto nero, assicurata da cinghie metalliche, che ne rendeva invisibili le fattezze. Al personaggio, ormai palesemente anziano, veniva riservato un trattamento di favore: cibo scelto e abbondante, vestiti costosi, possibilità di tenere in cella libri e persino un liuto. Tuttavia gli era fatto divieto di parlare con chicchessia, escluso il confessore (ma solo in confessione), con l’ufficiale comandante della guardia quando doveva chiedere qualche cosa che riguardava la sua detenzione (altri argomenti di conversazione erano vietati) e con il medico quando si fosse ammalato. Inoltre poteva togliersi la maschera per mangiare e per dormire, ma in ogni caso la doveva indossare quando si trovava in presenza o in vista di qualunque altra persona. Gli erano consentite anche brevi passeggiate nel cortile della fortezza, sempre mascherato e sotto stretta sorveglianza delle guardie.
Ma chi era “La Maschera di Ferro”?
La moderna storiografia propende prevalentemente per due personaggi: un gentiluomo di nome Eustache Dauger, coinvolto in scandali sessuali a Parigi, e il conte italiano Ercole Antonio Mattioli.
Chissà se in futuro lo scopriremo con sicurezza…
E a proposito di maschere imposte, non posso non citare colui che della maschera ha fatto una teoria e il fil rouge della sua intera poetica: Luigi Pirandello.
La maschera pirandelliana è un simbolo alienante, indice della spersonalizzazione e della frantumazione dell’io in identità molteplici. Attraverso la metafora della maschera, Pirandello ci racconta come l’uomo si trovi nascosto dietro a una “maschera” imposta dalla società con i valori dettati da questa e dietro a un’altra con i valori imposti dalla propria famiglia. E secondo Pirandello queste maschere che ricoprono l’inconscio non possono essere tolte dall’uomo; quindi egli non conosce la sua vera essenza e personalità. La maschera è una forma di adattamento in relazione al contesto e alla situazione sociale che lo rende personaggio e non lo rivela come persona. Pirandello ci insegna anche che essere noi stessi implicherebbe accettare il peso del confronto e affrontare i nostri conflitti interiori, ma soprattutto, ribellarci alla società, evadere da questa realtà, da cui, uscendo fuori dagli schemi imposti, verremo allontanati e additati come strani o reietti. E per questo:
“Tutti indossiamo una maschera, conforme a ciò che da noi si aspettano gli altri e che noi ci siamo imposti.”
(Luigi Pirandello)
Maschera come liberazione
“Sophie: Ma quanti sono i nomi che usi, eh Howl?
Howl: Solo quelli che mi servono per vivere libero.”
(“Il castello errante di Howl”, Hayao Miyazaki)
E sì, come ho già detto in precedenza, anche un semplice nome può essere una maschera, fornendoci una diversa identità, ma soprattutto la possibilità di vivere più liberamente parti della nostra personalità.
Qui parleremo della maschera in quanto strumento per rivelare senza inibizioni o il timore del giudizio altrui sfaccettature del nostro “Io” che, a volte, teniamo celate o reprimiamo nella vita di tutti i giorni; oppure, semplicemente, dandoci modo di far emergere capacità e potenzialità insite in noi di cui non abbiamo consapevolezza, ma che affiorano in superfice una volta indossata la maschera, che funge un po’ da scudo e po’ da catalizzatore.
L’esempio più antico è di certo il già citato Patroclo che, una volta indossata l’armatura di Achille, semina morte e scompiglio tra le fila nemiche con una letalità che egli stesso non avrebbe mai pensato di possedere.
Ma anche il romanticissimo e sfortunato Cirano de Bergerac, dell’omonima opera di Edmond Rostand, si “veste” del bel volto di Cristiano per proclamare i suoi sentimenti all’amata e ignara Rossana.
Nell’ultimo capolavoro di Kubrik “Eyes wide shut”, il protagonista si infiltra con l’inganno in una villa misteriosa dove regnano dissolutezza, lussuria e lascivia cui uomini e donne si abbandonano privi di qualsiasi inibizione protetti dall’anonimato di maschere veneziane.
Inoltre è un esempio delle capacità di “liberazione” della maschera il programma televisivo RAI “Il cantante mascherato”; infatti, la quasi totalità dei concorrenti ha rilasciato dichiarazioni su quanto si sentisse più libera di esprimersi celata dal travestimento.
Infine, a tal proposito, non posso non citare un fumetto che ha fatto della maschera l’icona della liberazione da ogni freno inibitorio: “The Mask”.
“The Mask” – noto in Italia anche come “La Maschera” – creato dalla Dark Horse nel 1989, nelle persone di John Arcudi (testi) e Doug Mahnke (disegni) – è il nome con cui è conosciuto Stanley Ipkiss, il protagonista del fumetto, quando si trasforma, proprio grazie a una maschera dagli arcani poteri. Questo magico oggetto conferisce a chiunque lo indossi invulnerabilità fisica e numerosi poteri che violano qualunque legge della fisica e della realtà (ad esempio l’abilità di creare cose dal nulla), ma al contempo diminuisce le inibizioni del suo portatore e ne amplifica le parti represse della sua personalità.
Conclusioni
Siamo giunti al termine di questo viaggio affascinante attraverso i tanti volti della maschera e desidero salutarvi con due citazioni opposte, ma complementari. La prima è del filosofo Erasmo da Rotterdam:
“Tutta la vita umana non è se non una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa, e continua nella parte, finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico.”
La seconda sono alcuni versi di una celebre canzone di Marco Masini che tanto sarebbe piaciuta a Pirandello:
“Nello specchio questa sera ho scoperto un altro volto
La mia anima è più vera della maschera che porto
Finalmente te lo dico con la mia disperazione:
Caro mio peggior nemico travestito da santone
V…”
Per Vendetta.