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Palazzo Farnese di Caprarola: il mistero degli affreschi dell’Anticamera degli angeli

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Palazzo Farnese di Caprarola: il mistero degli affreschi dell’Anticamera degli angeli

Siete mai stati nel Palazzo Farnese di Caprarola?

No…? È un imponente edificio di forma pentagonale che sorge non lontano da Roma, uno scrigno che nasconde al suo interno affreschi splendidi, ricchi di fascino e mistero. Infatti, chi si trova a vagare per le sue sale e i suoi giardini vedrà tante strane figure di cui si chiederà il significato: mitologia? Grottesche? Araldica?

Si, c’è anche questo, ovviamente. Ma c’è anche molto di più.

Facciamo un attimo un passo indietro; è maleducazione introdursi in una dimora senza neppure conoscerne il proprietario.

I lavori per il palazzo di Caprarola iniziarono nel 1530 per volontà di papa Paolo III quando era ancora un cardinale, ma una volta asceso al soglio pontificio i lavori vennero interrotti. L’edificio doveva essere un’inespugnabile fortezza. I lavori vennero poi ripresi dal “Gran CardinaleAlessandro Farnese, nipote di Paolo III – nipote, perché ne era il nonno, non lo zio miei cari – che decide di rendere il palazzo una villa con giardini “all’italiana”, per poter ritemprare lo spirito e il corpo in un luogo piacevole, lontano dalla torrida calura romana.

Sappiamo perfettamente che a quei tempi i comportamenti degli ecclesiastici non erano poi così pii e casti. Ma il cardinale Alessandro Farnese, uomo coltissimo, aveva anche un’altra passione poco ortodossa, una passione che se fosse stata di dominio pubblico, l’avrebbe messo in pericolo ben più di un rapporto clandestino.

Il cardinale Farnese nutriva un fortissimo interesse per la disciplina esoterica dell’alchimia, per gli scritti apocrifi, cabalistici e neoplatonici. Ne abbiamo conferma dagli affreschi che si trovano nelle sue due stanze da letto – la Stanza dell’Aurora e la Stanza dei Sogni – nel suo studiolo privato e nell’anticamera della sua stanza da letto estiva: l’Anticamera degli angeli.

E proprio degli affreschi di quest’ultima sala parleremo in questo articolo; perché vi si cela un enigma che cercheremo di svelare insieme facendo un tuffo nel passato.

Questa sala potrebbe essere definita una summa neo e veterotestamentaria degli episodi angelici che intercorrono nelle Sacre Scritture. L’anticamera viene realizzata tra il 1572 e il 1575 da Jacopo Zanguidi – detto il Bertoja – da Giovanni De’ Vecchi e Raffaellino da Reggio.

L’allegoria a cui si vuol dar vita in questa stanza è il prevalere del bene sul male; nelle pareti e nei riquadri centrali dei lunettoni, con interventi degli angeli intesi propriamente come “messaggeri” della volontà divina.

Ma la vittoria escatologica del bene sul male mostra il suo trionfo nella volta, dove è in atto la lotta cruenta tra gli angeli fedeli a Dio e gli angeli ribelli che verranno precipitati all’inferno, come afferma l’evangelista Giovanni nell’Apocalisse:

«[…] Poi scoppiò una guerra nel cielo: da una parte Michele e i suoi angeli, dall’altra il drago e i suoi angeli. Ma questi furono sconfitti, e non ci fu più posto per loro nel cielo, e il drago, cioè il serpente antico, che si chiama Diavolo e Satana, ed è il seduttore del mondo, fu gettato sulla terra, e anche i suoi angeli furono gettati giù […].»

La lotta tra bene e male è organizzata in monomachie che prevedono lo scontro tra un angelo e un demone, ma la coppia angelo-demone specularmente opposta a quella Michele-Lucifero, vede nelle vesti di angelo ribelle una donna.

L’essere femminile dell’affresco, a differenza della maggior parte dei demoni raffigurati, non presenta quei tratti caricaturali e grotteschi che li contraddistinguono. Anche l’atteggiamento con cui affronta il suo avversario è molto lontano dall’aggressività degli altri demoni; gli occhi imploranti, persi in quelli del suo carnefice, mentre quest’ultimo sta per sferrare il colpo mortale, e gli arti di entrambi che si protendono l’uno verso l’altro in un fatale abbraccio.

Ma chi è questa creatura?

Se si tiene fede alle possibili conoscenze che il cardinale Farnese poteva avere nell’ambito della letteratura, biblica, ebraica e in particolare cabalistica, si può procedere con un’ipotesi d’identificazione per questa figura.

Nell’Antico Testamento, nella visione della distruzione dei nemici di Sion, in particolare di Edom, il profeta Isaia afferma:

«[…] Le spine, le ortiche e i rovi riempiranno palazzi e fortezze. Queste diventeranno il rifugio di gufi e la tana degli sciacalli. I cani del deserto vi si raduneranno con le iene, le capre selvatiche si lanceranno il richiamo. Il demonio Lilith frequenterà questi luoghi e vi troverà il suo luogo di riposo […].»

Il passo appena citato di Isaia fa supporre che tutti sapessero chi fosse Lilith; successivamente, i commentatori delle Sacre Scritture furono i primi a parlarne descrivendola come un demone femminile, come un animale che ulula, o come un uccello che si aggira volando. Dal modo in cui ne parlano sembrano evidentemente influenzati dal Talmud – uno dei testi sacri dell’ebraismo – dal quale emerge un altro importante elemento: Lilith è un essere femminile attraente, ma delineata come una figura assolutamente negativa.

Questa creatura affonda le sue origini nella religione sumero-babilonese e trae molte delle sue caratteristiche peculiari da divinità come Lamashtû e Ishtar, e nonostante i molti scritti che ne parlano deformino o mutino il nome, che spesso esprime il concetto di notte e oscurità, dalla descrizione che ne fanno, emerge sempre l’intuizione che si stiano riferendo alla stessa entità sovrannaturale.

Come molte delle divinità che popolavano i pantheon delle religioni mediorientali, Lilith, con l’avvento dell’ebraismo, viene retrocessa a creatura demoniaca; ma la fortuna di questo personaggio perdura nel tempo, come mostrano gli scritti del III e X secolo d.C., rispettivamente: Il Testamento di Salomone e L’Alfabeto di Ben Sira. Dove emerge un altro fondamentale aspetto che la connota, e la rende responsabile della morte dei neonati.

Nel tardo Medioevo la figura di Lilith è resa icasticamente nella Cabala e in particolare nello Zohar – il libro più importante della tradizione cabalistica – come un’affascinante demone femminile seduttrice di uomini e assassina di neonati. Nella tradizione cabalistica, inoltre, viene aggiunto un nuovo elemento alla figura di Lilith: la relazione di quest’ultima con il male, identificato nella persona di Lucifero, o come più frequentemente viene appellato nello Zohar, Samael.

Se dunque si fa fede all’ampia cultura del cardinale Farnese, biblica, ma non solamente e necessariamente ortodossa, si può ipotizzare l’identificazione della figura ritratta con Lilith.

Ma forse la vasta cultura eterodossa del cardinale non basta a spiegare il suo desiderio di farla raffigurare in questo affresco.

La mia professoressa di italiano mi diceva sempre che la profondità di una tavoletta orfica è tutta sulla sua superficie.

Allora forse proprio sui tratti di questa donna ci dobbiamo concentrare: le forme generose, il viso paffuto con un accenno di doppio mento, incarnato niveo e guance rosate, capelli scuri con una particolare attaccatura, stempiata ai lati e avanzata al centro della fronte.

È interessante come queste caratteristiche si ritrovino in un ritratto realizzato da Jacopo Zucchi intorno al 1570, conservato a Roma nella Galleria Nazionale di Arte Antica.

La donna raffigurata in tutta la sua opulenta bellezza è Clelia Farnese, la figlia del cardinale Alessandro Farnese.

Ma, qualora fosse veramente la figlia del cardinale Farnese, perché quest’ultimo avrebbe voluto rappresentare la figlia in queste vesti?

Così Curzio Gonzaga descriveva Clelia in un suo poema:

«[…] Terrena Dea che col suo riso
Apre a sua voglia in terra un Paradiso […].»

La fanciulla – di madre ignota – era stata cresciuta dalla zia Vittoria Farnese, duchessa d’Urbino, e una volta in età da marito, era stata data in sposa dal padre al marchese Giovan Giorgio Cesarini.

Le nozze furono celebrate il 13 febbraio 1571 alla presenza di importanti personaggi del patriziato romano ma in assenza del cardinale Farnese, che ancora preferiva intervenire con discrezione nella vita di una figlia la cui esistenza non era ancora di dominio pubblico. Per sperare nella tiara, infatti, bisognava conformarsi al regime di austerità controriformistica imposto da Pio V e mantenere un profilo basso.

Tra le famiglie di antico lignaggio dell’Urbe, i Cesarini avevano puntato sulle carriere curiali e su un’oculata politica matrimoniale come vie di integrazione nei ranghi del baronaggio. Già imparentati con molti nobili casati capitolini, tra cui i Capranica, i Capizucchi e i Colonna, il
conferimento in perpetuo nel 1530 della carica di gonfaloniere del popolo romano ne aveva consacrato la preminenza nel patriziato urbano. Se il matrimonio era quindi “proportionato” per i Farnese, lo era anche per i Cesarini. Per quanto di illegittimi natali, Clelia era pur sempre figlia del “Gran Cardinale”, ricchissimo porporato che controllava una vastissima clientela e un numero incalcolabile di uffici civili e benefici ecclesiastici. Inoltre, la sua dote faceva gola a una famiglia sovraccarica di debiti e assillata dai creditori. E la sua dote era davvero cospicua: trentamila scudi d’oro, parte in contanti e parte in gioielli.

Clelia passò i primi tre mesi di vita coniugale tra Rocca Sinibalda e Civita Lavinia, altro feudo dei Cesarini, finché il padre accettò il rientro della coppia a Roma. In questo breve periodo la ragazza visse con la suocera Giulia Colonna, che avrebbe voluto indire grandi festeggiamenti per le nozze, venendone dissuasa, non senza fatica, dal cardinale Farnese, il quale controllava a distanza il comportamento dei novelli sposi.

Ma la fanciulla, nonostante i consigli di parenti ed ecclesiastici, pensava prevalentemente al divertimento, approfittando della vita gaudente che ancora caratterizzava gli ambienti aristocratici e le corti cardinalizie. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre nacque la bambina che portava in grembo, ma pochi giorni dopo il battesimo, amministrato il 19, la piccola morì.

Il 17 settembre 1572 Giovan Giorgio poté finalmente annunciare con “molta sua soddisfatione” la nascita di Giuliano, il figlio atteso con trepidazione dalla coppia; l’unico che Clelia avrà in tutta la sua vita, comprendendo la sua incapacità di mettere al mondo altri figli.

Purtroppo nulla va secondo i piani del cardinal Farnese: il genero, in cui pensava di trovare un alleato, non si rivela tale; infatti il Cesarini mantiene, anche dopo le nozze, l’amicizia e la “protezione” offerta dal cardinale Ferdinando de’ Medici – nemico giurato dei Farnese – nominando lui invece del suocero quale esecutore testamentario, adducendo come motivazione della sua decisione l’età avanzata del suocero a cui non vuole dare un’altra “scocciatura”.

Ovviamente il vero motivo era l’acredine che tra loro si era consolidata e, naturalmente, c’era anche lo scopo di salvaguardare i beni e le finanze di casa Cesarini dai Farnese; beni e finanze «protetti» attraverso il maggior antagonista del cardinale.

Il Cesarini con questa scelta cercò inoltre di sottrarre Clelia alle sottomissioni paterne cui sarebbe incorsa dopo una sua eventuale morte – come in effetti avvenne – inserendo un codicillo «serrato dieci giorni avanti la sua morte» in cui richiedeva la presenza costante della moglie nelle sue case e nel suo Stato:

«Item confirmando il legato, e quanto ho disposto in favore della detta Sig(no)ra consorte dechiaro, che quando detta Sig(no)ra andasse ad habitare in qualche loco, Terra ò Castello, ò Città dell’Illu(strissi)mo Cardinale Farnese padre, per uno ò vero dei mesi per suo diporto, ò per soddisfattione di detto suo padre, ò per qualche altro compimento non intendo che perciò sia priva del sopraddetto legato accio che la intentione mia non è stata ne è altra, se non che detta S(igno)ra possa et debba con più assiduità attendere al governo di casa mia in Roma, et nel stato mio, il che non intederebbe trasfirendo l’habitatione sua fuori di casa mia et del mio Stato».

La bellezza e il successo mondano di Clelia non potevano di certo passare inosservati, ma purtroppo le portarono solo sventura

La rivalità tra il cardinale de’ Medici ed il cardinale Farnese, era dovuta alla potenza politica farnesiana che in quel periodo veniva esercitata nell’Italia centrale, attraverso il Ducato di Piacenza e Parma – retto dal duca Ottavio, fratello del Cardinale – e il Ducato di Castro – nell’alto viterbese – rischiando di offuscare quella dei Medici.

Quindi forse non fu un caso che il cardinale Ferdinando, con il tempo, si rivelasse un assiduo corteggiatore della bella figlia del Farnese che frequentò insieme al marito Giovan Giorgio, la sua splendida corte romana che si raccoglieva nella Villa Medici che ancora oggi – divenuta sede dell’Accademia di Francia – si staglia sul Pincio, vicino a Trinità dei Monti.

Fu così che probabilmente si cominciò a tessere quella tela che servì agli avversari del cardinale Alessandro Farnese: infangarono la reputazione di Clelia per colpire suo padre, e lo fecero sia attraverso le lettere anonime che ricevettero marito e padre cardinale, sia attraverso le “pasquinate”: venne appeso, infatti, sulla statua del Pasquino un cartello infamante: «il Medico cavalca la mula Farnese».

Per i romani era chiara l’allusione al cardinale Ferdinando De’ Medici e la bellissima Clelia. È anche possibile che il cardinale Ferdinando facesse la corte a Clelia solo ed esclusivamente per dare del filo da torcere al Farnese; senza dubbio riuscì almeno in questo ultimo intento. Il cardinal Alessandro deve aver bevuto molti calici amari nel vedere la bella figlia oggetto di tanta corte e maldicenza.

Purtroppo chi ne fece le spese fu solo lei, nonostante cercasse di difendersi attraverso una lettera indirizzata a suo cugino, il duca Alessandro Farnese, uno dei maggiori condottieri del tempo:

«[…] Quello che poi più mi affligge è che il Sig. Cardinale ha aperto lettere senza sottoscritione et nome, un servitorello mal satisfatto di me o di qualche mio ministro o di qualcosa, subbito manda queste lettere contraffatte et il Cardinale subito le mette a luce […] dando adito che ogni giorno si moltiplichino in queste materie […]»

Perché è in questo punto la chiave interpretativa della figura affrescata sulla volta dell’Anticamera degli angeli. Sfortunatamente non conta quanto Clelia fosse innocente dei comportamenti immorali che le venivano imputati, ma quanto il padre credesse a queste voci e quanto queste abbiano contribuito a precludergli la via verso il soglio pontificio.

È così possibile pensare che ogni sera, prima di andarsi a coricare, passando per l’anticamera che dava accesso alla sua camera da letto, il cardinale alzasse lo sguardo, contemplando con una certa mestizia, il suo “angelo ribelle”, ormai irreparabilmente caduto.

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Sabrina Amato

Sabrina ama l’arte, così tanto da prendersi due lauree per avere ancor più motivi per amarla. Prova un fascino irresistibile per tutto ciò che non conosce, che sia profondo o lontano, e quindi adora l’acqua, nuotare, il mare e gli oceani, ma adora anche le danze orientali e le arti marziali. Nerd con la passione per il vintage, nel tempo libero partecipa come miss agli eventi del Miss Pin Up WW2 e ad ogni Romics come cosplayer. Sa resistere a tutto tranne alle tentazioni, ai gatti, ai cartoni animati e ai libri.

2 Comments

  • Buon giorno. Sono uno storico di Caprarola e ho trovato davvero interessante la sua lettura del’ dipinto della caduta degli angeli ribelli che si trova nel Palazzo Farnese. Ma non sapevo come contattarla e quindi ho scritto qui non so neanche se le arriverà.

    • Buonasera Luciano, mi scuso terribilmente per risponderle dopo un anno dal suo commento, ma purtroppo l’ho notato solo ora. Sono estremamente felice che il mio articolo le sia piaciuto. Mi dispiace davvero tantissimo non averle risposto prima…

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