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Recensione di “The Apprentice” di Ali Abbasi: l’ascesa di Donald Trump tra biopic e horror sociale

"The Apprentice" è contemporaneamente un crime, un biopic, un horror sociale, una commedia e uno spaccato puntualissimo sull'essere umano.

Recensione di “The Apprentice” di Ali Abbasi: l’ascesa di Donald Trump tra biopic e horror sociale

The Apprentice” è contemporaneamente un crime, un biopic, un horror sociale, una commedia e uno spaccato puntualissimo sull’essere umano. Forse, anche un film d’amore.

Narra l’ascesa di Donald Trump, da quasi 30enne quando era solo il figlio di suo padre, modesto immobiliarista di New York con qualche problema legale, fino alla fine del suo rapporto con Roy Cohn, brutale ma famoso avvocato conosciuto nell’esclusivo locale notturno Le Club che lo prenderà sotto la sua ala, e gli insegnerà tutti i trucchi per diventare il Trump che tutti conosciamo, spietato ma vincente, del resto nella vita o sei un killer o sei un perdente.

Presentato all’ultimo Festival di Cannes “The Apprentice” è l’ulteriore centro del regista Ali Abbasi, il terzo consecutivo, dopo l’esordio interessante ma incompleto di “Shelley” (2016), ha girato titoli come l’atipico fantasy “Border – Creature di Confine“, il crudo legal thriller”Holy Spider” e ora questo “The Apprentice“. Nel curriculum, anche gli ultimi 2 episodi dell’ottima serie Tv HBO The Last Of Us.

L’idea di realizzare “The Apprentice” nasce in realtà nel 2017, quando il giornalista politico Gabriel Sherman, profondo conoscitore di Trump e il produttore Amy Baer decidono di coinvolgere il regista Ali Abbasi nel progetto di raccontare il giovane Trump, diverso e poco trattato mediaticamente, e la sua ascesa come magnate di successo.

Soprattutto il suo rapporto con l’avvocato Roy Cohn, un altro nome pesante per la storia repubblicana; seppur formalmente democratico, ha collaborato Joseph McCarthy, Richard Nixon e Ronald Reagan oltre ad aver avuto una varia umanità di clienti, da Rupert Murdoch allo Studio 54, fino ai mafiosi Tony Salerno, Carmine Galante e John Gotti.

La scelta di Ali Abbasi è dettata da ragioni culturali, è un autore non americano ed ha alle spalle studi umanistici, e quindi può condividere il taglio deciso da Sherman di descrivere il rampante Trump come una persona a tutto tondo, che prova ad emergere e fare successo per ragioni con cui lo spettatore può facilmente immedesimarsi (voglia di essere riconosciuto dal rigido padre, desiderio di emancipazione, ecc…).

Il regista dice di essersi ispirato al capolavoro “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick, ma è davvero difficile non rivedere nel film vari riferimenti ai crime anni 70/80 alla Scorsese/De Palma, dove giovani rampolli scalano le fila della criminalità organizzata fino al vertice, vuoi per i metodi ricattatori ed estorsivi con cui Roy Cohn risolve i problemi di Trump e fa iniziare di fatto la sua ascesa economica, vuoi per la stupenda fotografia sgranata che ricrea (a Toronto) una Manhattan anni ‘70 assolutamente credibile, sporca e persa in una spirale di vizio, violenza, sesso e corruzione.

Roy Cohn sarà il “breaking bad” di Trump, l’evento che lo porterà a passare dal non bere analcolici (“Non mi piacciono le cose che mi rallentano”) alla dipendenza da anfetamine, dall’avere una cornice di regole socialmente accettabili, all’accettazione che quelle stesse regole sono fatte dall’uomo e sono completamente inutili per il raggiungimento del bene superiore, soldi e successo.

La stessa realtà per Cohn/Trump è un costrutto sociale facilmente manipolabile, e trova nei mass media un potentissimo amplificatore ed alleato. E se la realtà è così permeabile, anche i concetti di giusto e sbagliato non hanno più senso.

Le uniche regole di Trump saranno le 3 regole che gli detterà Roy Cohn e che Trump farà sue a tal punto da disconoscerne la paternità, le abbiamo imparate nella realtà quando Trump è diventato il 45° POTUS. Le 3 regole per raggiungere il potere saranno poi talmente interiorizzate da Trump da riproporle anche in qualsiasi rapporto personale intimo, e il film è uno spietato resoconto delle conseguenze di questa aberrazione. A seguito della morte del fratello di Trump, sua moglie Ivana Zelníčková gli dirà che è normale non stare bene, ma lui negherà di stare male, perché una delle regole è, appunto, non ammettere niente, negare ogni cosa.

Come da tradizione, l’allievo supererà il maestro, diventando ancora più cinico e spietato, un mostro amorale dove gli altri sono solo uno specchio su cui riflettere il proprio io. E quando la realtà presenta il conto, c’è sempre la scusa ipocrita per cui si è agito per un bene più grande, come dice spesso Cohn/Trump, l’America è il più grande cliente.

Il maestro verrà poi abbandonato quando non sarà più remunerativo o addirittura controproducente averlo vicino, nel caso di Roy Cohn quando si ammalerà di Aids, nonostante non ammetterà mai di essere omosessuale, e parlerà a mezzo stampa sempre di cancro, fedele alle sue regole.

Fin qui, la trama è qualcosa di già visto e stravisto, l’unica variazione è la curiosità che può nascere nel distinguere, nel film, ciò che è vero da ciò che è romanzato.

Ma è il come viene raccontato che eleva il film ad un’opera da ricordare nel tempo.

Il film ha una energia prorompente, è narrativamente devastante e lineare, i dialoghi sono brillanti, le scenografie immersive, la prova attoriale è sublime, il make up è presente ma i vari Trump, Cohn e Ivana, sono si riconoscibili ma non identici agli originali per non farli apparire come macchiette.

Il regista ha detto di aver spronato gli attori a improvvisare, e questa brillantezza si percepisce durante la visione. A ciò fa da contraltare il perfezionismo e la cura del particolare che pervade tutti gli altri elementi messi in scena.

La scelta degli attori si è rivelata perfetta, Sebastian Stan (“Tonya“, “La truffa dei Logan” ma anche “Soldato d’Inverno” nei film Marvel), rende bene tutte le sfaccettature di Trump, i suoi tic, la sua fisicità prorompente, la sua trasformazione. Jeremy Strong continua la sua promettente carriera dopo la vittoria di Emmy e Golden Globe per il suo Kendall Roy nella pluripremiata serie tv “Succession“, in un personaggio francamente più a fuoco e meno fantozziano, un Roy Cohn completamente amorale (“Tu sei il diavolo” gli urla Trump quando Cohn lo accuserà di averlo abbandonato) che solo in punto di morte capirà le conseguenze, in Trump, del suo insegnamento. Sulla sua pelle.

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Andrea Cesaretti

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