In tour a… Gaeta! Tra montagne, grotte, carceri e tielle!
Segui Email Alla scoperta delle bellezze di Gaeta: dalla grotta d’oro alla grotta del turco, dal lungomare Giovanni Caboto
Alla scoperta delle bellezze di Gaeta: dalla grotta d’oro alla grotta del turco, dal lungomare Giovanni Caboto al Castello Angioino tra storia e leggenda.
Ebbene sì, questa volta mi sono lasciata ammaliare dalle sirene dei viaggi organizzati – senza venditore di pentole a bordo! – e ho prenotato un piccolo tour che mi porterà prima a Gaeta, per poi condurmi il secondo giorno a Sperlonga e Fossanova.
In questo articolo vi racconterò la prima giornata passata a Gaeta, e, nel prossimo, la seconda. Ma bando alle ciance e… che il viaggio inizi!
O meglio termini, dopo qualche ora di pullman e l’immancabile sosta bagno-colazione all’autogrill, davanti alla facciata della Chiesa della Santissima Annunziata di Gaeta.
Lì ci attende e dà il suo benvenuto la nostra guida che, dopo pochi minuti, mi accorgo essere simpatica quanto un sasso nella scarpa o un capello nell’insalata, ma pazienza, almeno sembra preparata.
Chiesa della Santissima Annunziata e Grotta d’oro
La prima tappa della nostra visita alla città di Gaeta inizia proprio dalla Chiesa della Santissima Annunziata, che domina la piazza con la sua slanciata facciata barocca sulla quale è incastonato, come una gemma, un riquadro di maioliche policrome che danno vita allo stemma di Gaeta e al quadrante di un grande ed elegante orologio. Immagino già l’interno dell’edificio, coerente allo stile della facciata, contraddistinto dalle abbondanti dorature e incrostazioni marmoree che ho imparato a conoscere e amare nelle chiese barocche di Roma. Invece, una volta varcata la soglia, mi trovo immersa in un empireo di raffinate volte a crociera, diafane nei loro toni candidi e azzurro cielo. Guardando la leggerezza di quell’architettura impalpabile mi sento invasa da un senso di pace e serenità.
Ma il clou della visita alla chiesa deve ancora giungere; infatti, nel programma del tour era riportato che all’interno dell’edificio avremmo visitato la famosa “Grotta d’oro”, che, nella mia fantasia, aveva preso le sembianze della caverna delle meraviglie di Aladdin. In realtà ho scoperto che quella che viene chiamata “grotta”, è una cappella che di rupestre ha ben poco, ma che deve il suo nome alla preziosissima volta cassettonata in oro zecchino e blu oltremare. La sensazione che si prova in questo singolare spazio metafisico sicuramente ha avuto un ruolo determinante per la religione Cattolica, visto che proprio qui papa Pio IX – che amava pregare in questa cappella – ha avuto l’ispirazione per la stesura del dogma dell’Immacolata Concezione nel 1854.
Una volta riemersi all’aria aperta, la guida ci conduce verso la Cattedrale di Gaeta, percorrendo il lungomare Giovanni Caboto: a questo illustre navigatore gaetano del Rinascimento – che nel 1497 scoprì il Canada – si deve la tecnica di navigazione chiamata in suo onore “cabotaggio”, consistente in una navigazione che segue il profilo della costa.
Cattedrale di Gaeta
Dopo un ampio tratto di lungomare, abbiamo virato a destra, inoltrandoci per le stradine del centro storico di Gaeta, fino a trovarci, infine, alla presenza della Cattedrale, maestosa nella sua ampia facciata neogotica, vegliata dall’imponente campanile romanico dal sapore arabo-normanno, così simile allo stile amalfitano con le sue decorazioni di ceramica smaltata policroma, i “merletti” marmorei di archetti ciechi e la copertura a torrette che sembrano schiudersi al cielo come i petali di un fiore.
L’interno dell’edificio si presenta luminoso quanto essenziale nel suo austero stile neoclassico che s’incontra e si scontra con le permanenze del suo precedente volto medievale; visibile ancora nell’affascinante pavimento a mosaico cosmatesco, nei riquadri musivi e a bassorilievo nello stesso stile che costituiscono la balaustra e nelle antiche colonne che emergono dai pilastri come ossa scarnificate.
La vera meraviglia di questo edificio però, è conservata nel suo luogo più segreto…la cripta.
Scendendo le scale laterali all’altare si viene, infatti, accolti da un caldo bagliore diafano che una volta raggiunta la sua soglia, si scopre essere riverberata dalle incrostazioni di marmi policromi e dagli intarsi di madreperla che ricoprono interamente le pareti; per poi lasciare posto, sul soffitto agli affreschi, incorniciati in ricche decorazioni di stucco dorato.
Usciti dalla chiesa, il nostro simpatico torpedone ci attende per condurci poco distanti dal centro di Gaeta, in un luogo dal fascino selvaggio quanto misterioso: la Montagna Spaccata.
La Montagna Spaccata e la Grotta del Turco
Si chiama “spaccata” perché, ovviamente, prima era intera!
Una leggenda vuole che quando Gesù Cristo morì sulla croce, il terremoto che squarciò il velo del Tempio di Gerusalemme provocò anche tre profonde fenditure nella roccia di questo monte. Ma questa non è l’unica leggenda legata a questo luogo.
Sulla montagna sorge il Santuario della Santissima Trinità – edificato nell’XI secolo dai monaci benedettini – e da quest’ultimo si giunge al percorso che dà accesso alla discesa nel cuore del monte.
Attraverso un corridoio, le cui pareti sono ricoperte da una processione di “quadri” realizzati con maioliche invetriate che raffigurano la Via Crucis, si arriva alla piccola cappella dedicata a San Filippo Neri, dalla quale inizia il vero percorso attraverso la stretta e suggestiva gola di roccia. Lungo le sue pareti è incisa un’altra Via Crucis di cui San Bernardino da Siena si pensa sia stato l’autore.
Alla fine delle stazioni è impressa un’impronta. Una singolare leggenda narra che un marinaio turco, scettico verso le sacre origini delle spaccature del monte, appoggiandosi alla roccia la sentì miracolosamente fondersi, come fosse cera, ed infatti in questo punto la rupe pare davvero che si sia sciolta, lasciando visibile il solco delle cinque dita del miscredente. Come ipnotizzata da quell’impronta impressa, dall’aspetto tanto inquietante, vi sovrappongo la mano, sentendo sul palmo fino alla punta delle dita che affondano nella roccia, l’assurdamente liscia levigatezza con cui sembra sia stato addomesticato un elemento tanto aspro.
Il percorso termina e culmina con la Cappella del Crocifisso – costruita dopo che nel 1434 un enorme lastrone di roccia precipitò e s’incastrò tra le pareti della fenditura – dalla cui terrazza ammiro lo scorcio marino che si spalanca all’orizzonte.
Fatto il tragitto a ritroso, sto per uscire dalla porta ad arco del santuario, quando scorgo con la coda dell’occhio un’insegna: “Grotta del Turco”, chiedo lumi alla nostra guida e lei mi liquida velocemente dicendo che è un altro affaccio sul mare cui si accede tramite scalette e che se voglio posso andare a dargli un’occhiata mentre aspettiamo il pullman. Non me lo faccio ripetere due volte e corro nella direzione indicata dalle frecce, scendendo velocemente le rampe di scale che mi conducono ad una balconata sopraelevata che si affaccia su un paesaggio che sembra uscito da un racconto di pirati e sirene: incastonato nelle candide pareti voltate di roccia, brilla il mare cristallino, azzurro e splendente come una pietra preziosa. Estasiata da tanta bellezza, mi soffermo sul nome dato ad un luogo tanto magico, e mi trovo a fantasticare su avventurose spedizioni di pirati saraceni che, in segreto, cercano di approdare su queste coste…
Dopo un bel pranzetto a base di pesce mi ritrovo con un intero pomeriggio a disposizione davanti a me; infatti nel programma veniva specificato che, dopo pranzo, avremmo avuto il resto della giornata libera fino al mattino seguente.
Dove andare?
Durante la passeggiata della mattina avevo notato una chiesa – la guida aveva detto che era dedicata a San Francesco – che si ergeva in un punto sopraelevato; potrei andare a visitarla… e con questo pensiero, mi metto alla ricerca di scalette e vie che mi conducano alla parte alta della città. Poco dopo, trovo ciò che stavo cercando e, salendo un ragguardevole numero di scalini, raggiungo una strada soprelevata, che scopro essere parallela alla costa. Lungo il tragitto mi imbatto in tante chiesette, ormai diroccate, che, ai tempi del loro splendore, dovevano essere molto graziose.
Chiesa di San Francesco
Infine alla mia sinistra si apre alla vista, l’imponente complesso di San Francesco, con la sua lunga scalinata che introduce al piazzale, ornato di balaustra, antistante la chiesa. Percorro anche questa rampa di scale – pensando, così, di aver terminato di bruciare tutte le calorie del pranzo – e finalmente, ammiro da vicino la facciata in uno slanciato stile neogotico che profuma di tempi antichi e… a tal proposito, noto davanti alla chiesa un folto gruppo di persone che indossano abiti dalla foggia medievaleggiante e hanno in mano delle bandiere.
Chiedo a uno degli sbandieratori delucidazioni sulla loro presenza e costui mi spiega che all’interno della chiesa si sta celebrando un matrimonio, e gli sposi hanno espresso la volontà di avere una loro esibizione ad accoglierli al termine della cerimonia. Poiché desidero tanto assistere allo spettacolo, quanto vedere l’interno dell’edificio, non mi resta che aspettare la fine del rito, ormai giunto al termine.
Non devo attendere molto prima che gli invitati comincino a defluire dalla chiesa e a disporsi, come me, ai margini della piazza, in attesa degli sposi e dell’inizio dell’esibizione. Quando lo spettacolo inizia, la dimensione temporale si annulla e sembra di assistere alle nozze di un ricco signore medievale. Gli sbandieratori sono bravissimi nelle loro coreografie che lasciano tutti incantati con il fiato sospeso. Nel mentre, tra gli invitati, passa una collaboratrice del wedding planner che distribuisce agli ospiti un cono di riso e un flaconcino di bolle di sapone da utilizzare quando gli sposi percorreranno il tappeto bianco allontanandosi dalla soglia della chiesa. Complice il mio outfit, sempre un po’ troppo elegante di come vorrebbe la norma, vengo scambiata per uno degli invitati, quindi, ricevo anch’io il “kit di festeggiamento” e così, alla fine dell’esibizione mi trovo a gridare felice: «evviva gli sposi!». Lanciando riso e soffiando bolle di sapone che si librano leggere e variopinte verso l’azzurro del cielo. Terminato questo momento di giubilo alcuni ospiti mi si rivolgono chiedendomi con chi vado in auto per raggiungere il ristorante… capisco che è proprio giunto il momento di defilarmi, prima di essere imbucata dagli stessi invitati al matrimonio!
Così saluto, mi congratulo e con passo felpato, sgattaiolo e visitare l’interno della chiesa. Vengo accolta da un magnifico trionfo di architettura neogotica – coerente con l’esterno dell’edificio – modulata sui toni del panna e rosa tramonto. Gli slanciati pilastri a fascio sembrano possenti fusti d’albero che protendono i loro rami verso il cielo, dando vita alle intricate costolonature del soffitto. Incantato. Non trovo un aggettivo più adatto per definire questo luogo di culto.
Una volta uscita dall’edificio, il sole si sta ormai abbassando sull’orizzonte, ma c’è ancora un posto che voglio visitare prima che termini la giornata… voglio andare in carcere!
Le carceri di Gaeta
Tranquilli non sono impazzita. Quello lo sono già… ma a parte questo insignificante dettaglio, le carceri, o per meglio dire, le ex-carceri di Gaeta sono celebri per la loro storia e per gli “ospiti” che vi hanno soggiornato. Sono situate all’interno di un’imponente fortezza: il Castello Angioino Aragonese, precisamente nella parte angioina – la più antica – anche se ho scoperto, nel corso della visita, che il ruolo di edificio di detenzione, lo hanno ricoperto solo a partire dalla metà dell’Ottocento.
Raggiungo il castello di corsa perché temo di non fare in tempo ad unirmi al gruppo dell’ultimo turno di visita. E infatti, quando raggiungo la biglietteria, la visita è già incominciata… ma inaspettatamente, uno dei volontari dell’Università di Cassino – che ha in gestione questo luogo – si alza e si propone di accompagnarmi comunque a visitare il complesso carcerario. Ancora incredula, accetto e incominciamo l’esplorazione del castello. Apprendo così che questa prigione ha celle più antiche e più recenti, con condizioni di detenzione più o meno dure a seconda di chi fossero i prigionieri. In particolare rimango colpita da alcune celle costituite da loculi minuscoli, senza finestre, con “letto” e “cuscino” in cemento, con una catena cortissima e arrugginita attaccata al muro e da altre, più grandi e luminose, in cui consumavano anni della loro vita tutti coloro che si rifiutavano di prestare servizio militare, testimoni di Geova in primis.
Scopro che tra i prigionieri più famosi, queste carceri annoverano Giuseppe Mazzini, ma soprattutto gli ufficiali delle SS Herbert Kappler e Walter Reder; responsabili, rispettivamente: della strage delle fosse Ardeatine e del rastrellamento del Quadraro il primo, e degli eccidi di S. Anna di Stazzema e di Marzabotto il secondo. Rimango sconvolta dai racconti della guida, che mi mostra l’intera ala del carcere a loro riservata, in cui soggiornavano in due ampi appartamenti dotati di tutti i comfort: telefono, bagno, fornitissima dispensa e persino “la coperta” per scaldarsi nelle notti di solitudine. A tal proposito, vengo messa a conoscenza della curiosa e improbabile storia d’amore tra Herbert Kappler e Anneliese Wenger Walther che iniziò a scrivergli in carcere e poi a fargli via via visite sempre più frequenti – e io che pensavo fosse strano il fenomeno Amanda Knox – convolando infine a nozze nel 1972, ovviamente in carcere. E chi poteva fare il testimone di cotanta love story? Walter Reder naturalmente!
Dopo un rocambolesco tragitto tra le sterpaglie dei corridoi esterni del carcere, mi viene mostrata la vista più affascinante che questo complesso offre, quella a strapiombo sul mare, cupo nella sua limpidezza delle ore serali. Ormai è giunto il tramonto e, come il giorno, anche la visita è giunta al temine. Vengo riaccompagnata all’ingresso e ringrazio tutto il personale per la gentilezza usata nei miei confronti e, prima di congedarmi ho un’ultima domanda da fare: cosa e dove mangiare a Gaeta?
La risposta e unanime: la tiella!
Gaeta street food
La tiella è una pizza ripiena – o torta salata con l’impasto della pizza, che dir si voglia – farcita nei modi più fantasiosi; anche se, le più tipiche contengono sempre un tipo di pesce o mollusco, che siano cozze, vongole, calamari, sardine o gamberetti. Mi viene consigliato di recarmi in una tielleria accanto al porto, che si affaccia direttamente sul lungomare. Devo dire che, sebbene ci siano solo delle panchine esterne su cui accomodarsi, il gusto delle fette di tiella ripagano ampiamente la scomodità del luogo di consumazione.
Una volta terminata la mia cenetta, riprendo la strada verso l’albergo, passeggiando sul lungomare, ammirando le tremule lucine della cittadina di Formia, sul braccio opposto del golfo, e quelle modulate e ammalianti che investono gli ulivi monumentali di una piazza che si apre alla mia sinistra, giocando tra i rami e le foglie argentate.
Mi sento felice e serena dopo una simile giornata; cosa posso desiderare di più dalla vita?
Poi scorgo una raffinata pasticceria-gelateria con, disposti all’esterno, tavolini e sedie in stile partenopeo, bianchi in ferro battuto; ora conosco la risposta: un bel babà!