Adagio, recensione del crime di Stefano Sollima, ultimo capitolo della trilogia sulla Roma criminale
Segui Email Ricordate come inizia Romanzo Criminale – la serie? Ve lo ricordo io. Un gruppo di giovani delinquenti
Ricordate come inizia Romanzo Criminale – la serie? Ve lo ricordo io.
Un gruppo di giovani delinquenti sta picchiando un povero vecchio, è a terra, loro si accaniscono con calci e pugni, gli svuotano il portafogli e se ne vanno, lasciandolo sanguinante, mentre una scritta in sovrimpressione ci informa del luogo e del tempo: Magliana. Oggi.
Il vecchio si alza, si dà una ripulita e, con passo strascicato, adagio, senza fretta, trova i teppistelli al tavolino di un bar. Il capetto gli va incontro minaccioso, il vecchio alza la pistola, gli spara ad una gamba. Il ragazzo è a terra. Il vecchio gli è presto addosso e gli sussurra qualcosa ad un orecchio. Adesso il ragazzo è terrorizzato, indietreggia, ma il vecchio gli spara senza pietà, per poi urlare al cielo, a Roma tutta, che lui stava col Libanese.
Dopo la serie di Romanzo Criminale, dopo Suburra, Stefano Sollima chiude la trilogia sulla Roma criminale con Adagio, il suo film più intimista, “per famiglie” scherza il produttore in conferenza stampa.
E lo fa narrando proprio di quella generazione di criminali stanchi, malati, stropicciati, pieni di rimorsi, proprio come il Bufalo nelle scene iniziali della serie di Romanzo Criminale, in una ideale chiusura del cerchio.
Un film potentissimo, un crime che appassiona dalla prima all’ultimissima inquadratura, governato da una tensione costante, sorretto da una regia chirurgica, da dialoghi secchi e taglienti che scavano nelle psicologie e da attori in stato di grazia che non avete mai visto in queste vesti.
Paul Niuman (Valerio Mastandrea), ormai cieco, Daytona (Toni Servillo), che non ci sta tanto con la testa, fissato con i numeri, spesso assente tranne rari momenti di lucidità, e Romeo, detto “il Cammello” (un Pierfrancesco Favino che fa un lavoro sul corpo eccezionale, glabro, scavato, dal corpo spigoloso e massiccio e per questo ancora più minaccioso e brutale) criminale malato terminale appena uscito di galera con il peso sul cuore di un figlio morto e una donna che lo respinge, devono uscire fuori dalle loro tane, dove se ne starebbero tranquilli a passare i loro ultimi giorni, per aiutare Manuel, sedici anni, figliastro di Daytona vittima di un ricatto. Ad inseguire il ragazzo invischiato in questioni ben oltre la sua portata un sorprendente Adriano Giannini in un ruolo per lui inedito, di un tutore della legge corrotto, un padre capace di rimboccare le coperte al figlio o chiamarlo nel bel mezzo di un inseguimento per sapere cosa sta facendo per poi, come il più incarognito dei criminali, pestare, minacciare e uccidere pur di raggiungere il suo scopo.
Intanto, tutto intorno a questi personaggi, Roma brucia e continui black-out alternano luci e ombre sulla città, che sembrano tanto i momenti di buio e luce che colpiscono il personaggio di Toni Servillo, una sorta di Keyser Söze che, fino alla fine, non si capirà mai se ci è, o ci fa, protagonista di una scena di una tensione altissima.
Nota: è stato chiesto in conferenza stampa al regista e al protagonista chiarimenti su questo aspetto del personaggio, se fosse un vero malato o sta solo fingendo, ma niente da fare, lo stesso Servillo lo ha chiesto più volte al regista in fase di preparazione che ha risposto di non saperlo neanche lui!
Una storia semplice semplice che va dritto per la sua strada, toccando nervi scoperti come il rapporto genitori figli e lo scontro tra generazioni (non solo di criminali).
Quello che Sollima racconta è una apocalissi imminente, su Roma cade una fitta cenere, gli uccelli si allontanano dalla città, e dentro questa cortina di fuoco e fiamme, gli uomini fanno quello che hanno sempre fatto, combattono, soffrono, si uccidono tra di loro, cercano di sopravvivere. Ma la sopravvivenza non è per tutti, e se la città è ormai un dedalo inestricabile di casermoni, sopraelevate, squallidi anfratti, così è il cuore di questi uomini persi.
Perchè oltre la brutalità e la violenza, Adagio ha un passo intimo fatto di dettagli che colpiscono più di un colpo di pistola.
“Ho il cuore rotto anche io”, dice il Cammello alla moglie, un figlio morto, anni in prigione, un cancro che lo divora, una moglie che prova solo fastidio alla sua presenza, sono solo sei parole, ma nascondono un mondo segreto dentro un corpo ormai sconfitto.
“Prendi le tue cose e vattene, e chiudi bene la porta”, dice Daytona al figliastro che abbiamo visto all’inizio prendersi cura del padre malato, sottolineando la difficoltà di essere un padre appena accettabile in un mondo cinico, caotico e feroce.
E poi, dopo tutto questo caos, questa corruzsione, arriva il finalissimo, e quello che sembra una parabola senza speranza si apre alla luce. La nuova generazione, con un solo gesto, sembra cancellare tutto quel cinismo e quella violenza. E Roma, per un attimo, smette di bruciare.