Pupi Avati presenta il libro “La Terra del Diavolo” e ripercorre la sua carriera tra ricordi e aneddoti
Segui Email È stato presentato presso la libreria Mondadori di via Piave a Roma, il libro La Terra del Diavolo a
È stato presentato presso la libreria Mondadori di via Piave a Roma, il libro La Terra del Diavolo a cura di Claudio Miani e Gian Lorenzo Masedu, secondo volume della collana Voci di Dentro, dedicato al regista Pupi Avati, che ha animato l’incontro con il pubblico.
“Ho provato fin da subito un’enorme diffidenza verso questo progetto. Ho accettato solo perché Claudio Miani era molto simpatico – ha esordito il regista – Invece, devo dire, che questo è uno dei libri più belli che abbia visto, fatto con una grandissima cura dei dettagli, anche da un punto di vista editoriale e di impaginazione. Mi avete stupefatto, nonostante le mie aspettative fossero davvero zero”.
L’incontro, poi, è stata una lunga chiacchierata in cui il cineasta ha ripercorso tutta la sua carriera artistica. “Il mio è un cinema che nasce nel ’68, con tutte le prerogative di quegli anni. In cui si pensava che la fantasia potesse andare al potere. ‘Opera aperta’ di Umberto Eco ci ha segnato molto in quegli anni e ci ha convinto del fatto che più un’opera era aperta, più era capace di entrare in sinergia con lo spettatore che l’avrebbe poi completata. Niente di più utopico. Abbiamo vissuto un grosso equivoco. Il cinema è uno strumento assolutamente popolare e un film che non arriva al pubblico non ha alcun senso”.
“Chi ha iniziato in quegli anni – ha proseguito Pupi Avati, rispondendo alle domande di Claudio Miani sui suoi primi passi nel mondo del cinema – ha avuto degli esordi molto rocamboleschi. Il mio ‘inizio’ è stato davvero un disastro e viverlo in provincia è stato ancora peggio. La provincia è davvero cattiva. Sono stato costretto a scappare da Bologna, dove ero visto come il fallito della situazione, e sono venuto a Roma che ha il grande dono dell’indifferenza. Proprio qua ho avuto la grande fortuna di incontrare Ugo Tognazzi. Lui venne a lavorare con me che ero un fallito. Sia lui che Paolo Villaggio. Ho fatto un film con loro due, grazie al quale poi non mi sono più fermato e ho avuto modo di fare carriera”.
Dopo questo breve excursus storico, poi, il regista ha concluso spiegando perché, secondo lui, oggi la qualità del nostro cinema si è man mano persa sempre di più e criticando parte del sistema industriale. “Quando io ho iniziato a fare cinema, i miei colleghi erano Lattuada, Fellini… Oggi i cognomi sono ben diversi. Non dico che non ci siano bravi colleghi naturalmente. Ma il problema sono i committenti. Non c’è più l’ambizione di voler fare un bel film. L’entusiasmo e l’energia di chi pensava di fare il film della vita, ed era comune a tutti all’epoca, oggi non c’è più. Ormai siamo ossessionati dai numeri, da quanti ascolti o quanti incassi si fanno. Le valutazioni ormai sono solo quantitative, non qualitative. E la cosa peggiore è che in questo modo priviamo i nostri figli dell’ambizione”.